Snark, ovvero quando le cattive maniere prendono il sopravvento (2024)

Snark [Crasi tra snide (maligno) e remark (appunto): perfidia fatta passare per humour] (sost.) Upgrading del sarcasmo: battuta che fa ridere chi la dice ma piangere quella/o a cui è indirizzata (med.) Patologia talmente diffusa da meritarsi un libro Pratica non adatta alle (belle) donne: per tutti (gli uomini) è sinonimo di prontezza di spirito, per loro di acidità PENSATE A Massimo D’Alema, e non vi serviranno giri di parole. Perché una traduzione esatta di Snark, in italiano, non c’è; ma la parola è una crasi tra snide e remark, ovvero una notazione perfida, una di quelle cattiverie che fanno ridere gli altri e piangere quelli cui sono rivolte, quella sfumatura di sarcasmo che compensa in perfidia quel che le manca in empatia.

Insomma una traduzione italiana di Snark, il saggio del giornalista del New Yorker David Denby sulla sindrome che ha secondo lui infestato i dibattiti e i giornali e la società, non potrebbe che avere una copertina coi baffi. Solo che Massimo D’Alema è un uomo. Come lo è George Clooney. E tutti e due, in modi diversi, dimostrano un punto già noto a tutte noi. Per il politico, il parallelismo è facile: quello che per un uomo è irresistibile sarcasmo, basterebbe a far liquidare una qualunque donna come zitella acida. Il secondo, Georgino, è un caso di scuola di disparità tra i sessi. Essendo bello a livelli che gli dovrebbero permettere di accontentarsi, Clooney ha deciso di puntare sul resto. Nella fattispecie, sull’ironia. Peggio ancora: sull’autoironia. Quindi, quando People inserisce al suo posto l’amico Brad o l’amico Matt nella lista dei più belli del pianeta, lui inscena disperazione per questo smacco, promette rivalse, e - senza neanche bisogno di ammiccare - è evidente a tutti che il messaggio è: sai quanto me ne frega di queste fesserie. Una donna non lo potrebbe fare. Innanzitutto perché non è previsto che, all’essere decretata più bella del pianeta, fosse pure dal giornalino di Vimercate, ella risponda con un tono che sottintenda «Che simpatica stupidaggine ». Poi perché essere buffe è una cosa che, da sempre, vediamo come un ripiego in caso non ci riesca d’essere le belle del ballo. Ma, soprattutto, perché una donna che faccia commenti sarcastici sull’essere stata superata da un’altra in una gara di bellezza non riuscirebbe a convincere neanche i parenti più stretti di non essere invidiosa.

Naturalmente il doppio standard non è ufficiale. Chiunque, all’obiezione sull’incompatibilità di femminilità e umorismo, vi dirà: ma come, e Luciana Littizzetto? Siccome né Mae West né Marilyn Monroe sono bastate a rendere familiare il concetto “pin up con battuta pronta”, Luciana Littizzetto deve aderire a quel che il pubblico si aspetta da una donna che lo faccia ridere. Prima regola: che non somigli a una donna che li faccia arrapare. In una puntata di Che tempo che fa, si è sfilata un golfino, una di quelle cose con cui si infa*gotta in trasmissione e che la fanno sembrare molto meno carina di quanto sia fuori onda, e il pubblico in studio ha mostrato un certo apprezzamento per l’esposizione delle forme. Fabio Fazio era colpito, e non positivamente: è offensivo che un oggetto intellettuale venga scambiato per oggetto sessuale. Tradotto dalla lingua del maschilismo dissimulato: una bella donna che faccia ridere è troppo. Inaccettabile. Pericolosa. Non pervenuta. A Littizzetto non è consentito esprimersi in quanto bella donna, esattamente come a Filippa Lagerback (presente nello stesso programma, e fatta tradizionalmente a forma di bella donna) non può venire consentito di dimostrare una qualche brillantezza. D’altra parte non è un caso se tutte le vallette, le troniste, le decerebrate telvisive e da calendario dicono «Voglio un uomo che mi faccia ridere» (e mai, curiosamente, «un miliardario che mi sposi in comunione dei beni»), e nessun uomo mai esprime lo stesso concetto.

Era Jessica Rabbit, la pinup la cui passione per il coniglio Roger era proprio inspiegabile, a motivarla con «Mi fa ridere», e ci siamo tutte formate su di lei. Gli uomini, no. Si ha memoria, nei classici di formazione, di donne che li facciano ammattire coi loro capricci (Rossella O’Hara), di donne irresistibili per la loro naturale eleganza nonostante le umili origini (Sabrina), di donne che con la loro dolcezza tirino fuori il buono che è nel maschio di turno (Pretty Woman). Ma mai di un’eroina della quale l’eroe dica «Mi fa ridere». Le donne con la battuta pronta, come Kathy in Come eravamo, sono di irredimibile bruttezza per compensare la loro inaccettabile prontezza di spirito, e comunque alla fine vengono piantate. Per una biondina graziosa pronta a sgranare gli occhi e a trovare lui taaanto più intelligente e spiritoso e tutte quelle cose che sono qualità intrinsecamente maschili. Katharine Hepburn, che era bella nel modo in cui lo si poteva essere solo essendo del secolo scorso, e che era linguacciuta come nel secolo scorso potevano permettersi d’essere solo le ragazze molto di buona famiglia o quelle con pochissimo da perdere, a un certo punto commissionò una storia che l’avesse per protagonista. Il personaggio era Tracy Lord, in quello che a teatro e poi al cinema divenne Scandalo a Filadelfia. Era sarcastica, egoista, capricciosa, e mai disposta a lasciare a qualcun altro l’ultima parola. Hepburn sapeva benissimo che la propria trasposizione esatta sullo schermo sarebbe stata inaccettabile, e considerata indegna d’un lieto fine. Raccontano le biografie che, nel descrivere all’autore come avrebbe dovuto essere Tracy, gli disse: «Falla identica a me, ma a un quarto d’ora dalla fine falla ammorbidire».

In Snark, Denby se la prende con Maureen Dowd, editorialista del New York Times. Naturalmente non ne stigmatizza l’umorismo, bensì la mancanza di empatia, di ottimismo, l’eccesso di acidità. Tutte critiche che gli verrebbe meno spontaneo fare a un editorialista uomo, ma d’altra parte è comprensibile: Maureen ha due tette come mamma Denby, e un paio di tacchi come mamma Denby, e il rossetto rosso proprio come mamma Denby: com’è possible che non si limiti a far torte e ad andare di là a ricamare mentre gli uomini, in salotto, fumano il sigaro e parlano del mondo? Non lo sa che così non troverà mai marito? Non lo sa che ci sarà sempre un David Denby, un Fabio Fazio, un insospettabile intellettuale di sinistra a dire che, per carità, lui non vorrebbe mai avere a che fare con una di quelle calendariste con le labbra a canotto, lui vuole una donna che gli tenga testa nella conversazione e che sappia sghignazzare dei di lui difetti, e però, come insegnava Mamy a Rossella, «quello che uomini dire e quello che pensare essere due cose»? E infatti Maureen, con tutto il suo spirito di patate e la sua lingua lunga, non ha messo ancora neppure un marito in curriculum. Ed è questa l’ambizione femminile principale, no? Shane Watson è una giornalista inglese piuttosto famosa, ha una rubrica sull’inserto Style del Sunday Times, ha scritto un paio di romanzi, e per anni l’orgoglio zitellesco è stato uno dei suoi argomenti principali. Poi ha incontrato un uomo da sposare. Fuori tempo massimo: lei aveva 47 anni. Siccome non si butta niente, sul concetto di «non è mai troppo tardi per smettere d’essere una zitella senza speranza » Shane ha scritto un libro (How to meet a man after 40, in Italia pubblicato da Sonzogno).

Siccome nessuno è più zelante dei neoconvertiti, Shane sembra aver accantonato qualunque decenza e messo da parte i principi da reality («essere se stesse» e altre amenità) e la saggezza da rivista femminile: ci esorta a censurarci il più possibile sennò, poverini, loro si spaventano. In particolare, raccomanda di tenere a freno il sarcasmo, che potrebbe essere frainteso. Ci fornisce anche illuminanti esempi autobiografici, di occasioni perdute perché troppo linguacciuta. A una cena, la mettono a sedere vicino allo scapolo più ambito, e lei sospira «Uh, come sono sfortunata con la disposizione dei posti». Nel corso della cena, il tizio parla con l’altra vicina di tavolo, e poi con una seduta di fronte, e mai si rivolge a lei. La conclusione non è, come sarebbe ovvio, che semplicemente la signorina Watson non era il suo tipo, o almeno non quanto lo erano le altre due: il giorno dopo, l’immancabile amica comune riferisce che lui non vedeva l’ora di intrattenersi con lei, ma era stato inibito dall’aggressività di quella sua battuta sulla disposizione dei posti, e anche un po’ offeso che lei non volesse sedergli vicino. Siccome siamo delle signorine e stiamo sedute composte, la morale che ne traiamo non è che questo qui era un cretino che non capisce le battute e scambia una frase chiaramente flirtereccia per un insulto, e che nessuna donna sensata può rimpiangere la sera in cui non si è fidanzata con uno al quale bisogna fare dei disegnini per spiegargli che non tutto va preso alla lettera. No: la morale è che, a furia di battute, rischiamo di invecchiare zitelle – c’è forse minaccia peggiore?

Probabilmente no. Io stessa ne sono rimasta talmente spaventata che ho smesso immediatamente. In questo articolo non c’è neppure una battuta. Sono una ragazza seria e so che scherzare è un hobby da maschi, un po’ come guardare Lost o la partita. E so che passerò la vita a litigarmi sex symbol come George Clooney non solo con le donne ma anche coi gay: nessuno vuole una donna con la battuta pronta ma tutti, uomini compresi, vogliono un uomo che li faccia ridere.

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